
Che cosa ti ha ispirato a lasciare la tua casa in Italia e venire in Canada? In particolare che cosa ti ha portato a Vancouver?
Non volevo andare a fare il militare, per me erano due anni perduti e non avevo assolutamente niente. Ho fatto i miei 20 anni quando mi sono imbarcato a Napoli. Per immigrare dovevi avere tutta la salute in regola, e ce l’avevo, ma non avevo i fondi; ci volevano $125 in contanti e in più dovevi pagarti il viaggio. Sono andato nell’osteria che mio padre frequentava spesso e ho spiegato al padrone , Umberto, che mi sarebbe paiciuto emigrare. Il signor Umberto mi ha dato tutti i soldi di cui avevo bisogno e con i primi guadagni l’ho rimborsato. Mi ero candidato sia per il Canada che per l’Australia; il Canada ha risposto per primo e quindi sono venuto qua.
Quando sono andato in agenzia viaggi mi hanno chiesto dove volevo andare e ho detto:«Più distante che puoi mandarmi!». Non avevo la minima idea di quanto fosse grande il Canada e di quanti giorni ci volessero per arrivare a Vancouver! Vancouver a caso quindi, lo avevo sentito nominare da amici ma questo era tutto.
Quali sono state alcune delle tue prime esperienze quando sei arrivato in Canada?
Ci ho messo sette giorni in nave e sette giorni in treno per arrivare a Vancouver, con due valigie pesanti! La prima cosa che ho fatto é stata prendere il telefono e cercare qualcuno che mi ospitasse per la notte e il giorno successivo avrei cercato un lavoro. Ho fatto un numero a caso trovato sull’elenco telefonico e un gentiluomo italiano mi ha mandato suo figlio a prendermi all’aeroporto. Mi ha alloggiato nel solaio ed é andata bene così. Il giorno dopo ho iniziato a cercare lavoro come saldatore e tornitore; ho scoperto che da Boyle’s Brothers, c’era un sacco di lavoro e lavoravano sette giorni a settimana, giorno e notte! Io non parlavo inglese e mi hanno solo detto di ripetere: «Have you a job for me?». Continuavo a ripetermelo per non dimenticarlo! Il responsabile é arrivato con un interprete italiano, che era poi l’addetto alle pulizie; purtroppo era illetterato e non parlava italiano, solo dialetto. Io venivo dal nord e lui dal sud e non ci capivamo!
A quel tempo la ditta cercava un macchinista ma non parlando inglese avevo paura che richiedesse troppa conversazione, seppure avessi la conoscenza del mestiere. Il responsabile pensava che non fossi capace a fare quel lavoro e, per mettermi alla prova, ha rimosso un pezzo dell’ingranaggio per vedere se mi accorgevo! Ho pensato che se dovevo adattarmi, era meglio farlo il primo giorno o gli avrei dato un pugno in faccia!
Cosa hai fatto della tua carriera quando sei venuto in Canada?
Dopo la prova, i Boyle’s Brothers Diamond Drill, mi hanno messo a lavorare dove facevano tutti gli stampi per le teste coronate (diamond bits). A quei tempi ti davano il cartellino da timbrare e una quantità di pezzi che dovevi fare in 8 ore ma per me era una risata fare quel lavoro; in Italia dovevi fare tutto da zero mentre qui ti davano i ferri già preparati, non dovevi fare altro che produrre.
Nelle 2-3 ore libere che avevo dopo aver finito il mio lavoro, andavo in giro per la fabbrica per vedere come lavoravano. Avevano delle “cassette dei suggerimenti” e mi capitava spesso di avere delle nuove idee; il soprintendente del dipartimento mi aveva preso di buon occhio e veniva da me per creare pezzi speciali, che altrimenti avrebbero dovuto passare attraverso i processi di regolamentazione. Per me era una gioia mettere in pratica qualcosa! Ad un certo punto facevo più soldi con la cassetta dei suggerimenti che con lo stipendio! Ho cominciato con $1.25 al giorno.
Dopo quattro anni mi hanno dato l’opportunità di diventare capo officina ma ho rifiutato perché io ero lí per guadagnare mica per i titoli! Avevo suggerito un altro operaio per coprire quella posizione ma io mi sarei preso cura di organizzare il lavoro.
Sono stato da loro per tredici anni, in chiamata sette giorni a settimana, ventiquattro ore al giorno. Molte volte sono dovuto andare di notte e nei fine settimana, perchè c’erano problemi o avevano bisogno di qualcosa.
Poi la compagnia ha deciso di spostarsi in Ontario perchè gli operai venivano pagati meno.
Durante quegli anni ho dovuto affrontare parecchie sfide. I Boyle’s Brothers, prima di trasferirsi in Ontario, fecero un’esposizione di tutti i produttori di teste coronate. All’apertura della mostra, un gentiliuomo australiano si mise a spiegare questi pezzi ma era incompetente, e io glielo feci notare. Il Presidente dei Boyle’s mi prese per il collo, dicendomi di non mettere in imbarazzo un superiore in quel modo. Ma io non avevo paura, amavo il mio lavoro. Dopo una settimana licenziarono l’australiano! Ho messo diverse persone in croce ma non mi importava.
Successivamente sono stato in Ontario per 6 mesi, lasciando a casa la mia famiglia.
Poi mi sono messo in proprio. Ho chiamato un gruppo di ex Boyle’s e ho fondato una compagnia che si chiamava Westdrill, ma non è durata tanti anni. Durante una vacanza in Italia, mi sono fidato del manager per gestire la compagnia ma sfortunatamente ha sfruttato l’opportunità per prendere la maggioranza delle quote, quindi ho dovuto vendere le mie. Nel frattempo, JK Smith, una grande azienda con sede a Toronto, ha saputo di questa situazione e mi ha chiamato. La loro intenzione era di aprire qualcosa a Vancouver e mi avrebbero voluto come manager della produzione. Ho detto a Elsa che questa sarebbe stata una bella prova per me e lei è sempre stata al mio fianco. Così abbiamo iniziato, in un mese eravamo in produzione. In due anni avevo settanta operai al lavoro.
Sono stato con JKS fino al 1990 e poi mi sono messo di nuovo per conto mio; ho aperto Ruden Manifaturing e poi l’ho passata a mio figlio Dennis nel 1992. Anche mio nipote ora lavora con lui, ha seguito le orme del nonno. La segretaria è mia nuora Theresa, abbiamo fatto tutto in famiglia.
Come sarebbe stata la tua vita se fossi rimasto in Italia?
In Italia ero già capo officina a 18 anni! Mio fratello, che era sette anni più vecchio di me, si lamentava sempre perchè io gli insegnavo come doveva fare. Può darsi che avrei fatto lo stesso lavoro tutta la vita, è difficile dire. Vedendo il progresso in Italia, tramite gli amici con cui sono andato a scuola, credo che non avrei avuto nessun problema ugualmente.
Cosa ti è rimasto dell’Italia?
Innanzitutto, sono un italiano e sono orgogolioso di essere italiano, come sono ugualmente orgoglioso di essere canadese, perchè qui ho speso la mia vita. Abbiamo sempre però mantenuto le nostre abitudini, specialmente il cibo. Ci sono solo due tipi di persone al mondo lo sai? «Gli italiani e quelli che vorrebbero essere italiani!» (The Italians and those who wish to be Italian).
Quanto era importante il Centro Culturale Italiano per la comunità italiana a quel tempo?
Qui torniamo indietro negli anni ‘60. A quel tempo, tutti i giovani immigrati italiani seguivano Padre Della Torre alla Chiesa del Sacro Cuore; era quello il primo centro culturale italiano. La maggior parte degli immigrati si erano sposati lì o avevano battezzato i figli. Nel 1957 noi ci siamo sposati.
Dopo quattro anni Padre Della Torre mi ha chiamato per una riunione con il giudice Branca: gli sarebbe piaciuto coinvolgermi in un’associazione multiculturale, la Botherhood Interfaith Society.
Bisognava essere canadesi per partecipare e il giudice Branca mi promise di farmi canadese! Due settimane dopo facevamo il giuramento per la cittadinanza. Branca era come un padre per noi.
E da quel momento ho cominciato ad essere coinvolto nella comunità.
Nel 1966 è nata la Confratellanza Italo-Canadese, il motto era “Uno per tutti, tutti per uno”. Era un’amalgamazione di quattro associazioni: i Figli d’Italia, nati nel 1904; la Veneta Benevolent; la Società Italo-Canadese e il Circolo Meridionale.
Sfortunatamente, quando hanno iniziato a costruire il Centro c’è stato un grande malinteso tra la Confratellanza e i rappresentanti del Centro. Tutti volevano l’autorità per rappresentare la comunità e hanno creato una guerra per diversi anni. Ci sono voluti tre anni prima che la Confratellanza venisse accettata dal Centro come membro. E così ho iniziato ad essere coinvolto, ero orgoglioso di essere parte del Centro. Ho fatto parte del Club delle Bocce, sono stato Presidente della Casa Serena e vice Presidente del Centro. Ho sempre fatto tutto solo per soddisfazione personale e per aiutare quelli che non potevano aiutare sè stessi.
Per esempio ho partecipato nell’apertura del Museo. L’idea è nata con la mostra che era stata organizzata per i cento anni delle Associazioni, relativa alla storia dei pionieri. Successivamente ho spinto per creare il Museo e conservare tutti i documenti. Dopo otto anni ho presentato il progetto e, con l’aiuto del Direttivo, hanno finalmente deciso di costruirlo.
Al Club delle Bocce, invece, abbiamo persino fatto gare internazionali; c’erano 140-160 membri all’epoca, bisognava mettersi in fila per giocare a bocce!
Un’altra storia interessante è quella della Gondola, la quale è stata donata all’Expo dell’86 dalla città di Venezia a Vancouver. Finita l’Expo l’hanno donata al Maritime Museum, dove è stata esposta nel prato per diversi anni. Mi è quindi stato proposto, insieme ad un gruppetto, di fare qualcosa per la gondola e quindi l’abbiamo restaurata. L’abbiamo spinta fino su Commercial Drive e abbiamo costruito la vetrina dove si trova ora. Poi successe la stessa storia con il Carretto dei siciliani!
All’epoca, agli italiani interessava avere il Centro, un luogo di ricreazione dove si poteva stare insieme, fare giochi, banchetti e festeggiamenti per mantenere la cultura italiana, anche attraverso la scuola e la biblioteca.
Il Centro era importantissimo ma purtroppo ci sono state tante discordie.
Come si è evoluto il Centro Culturale Italiano oggi?
Oggi c’è una tremenda confusione. Io sono sempre stato al 100% per il progresso; bisogna creare una situazione in cui le nuove generazioni di giovani abbiano un posto dove andare e che sia economicamente autosufficiente. Forse il Centro Culturale Italiano ha più importanza oggi che nel passato. L’idea iniziale del Centro era quella di trasmettere cultura e di arricchirsi, questo dovrebbe essere anche il mandato di oggi.
Quali sono alcuni consigli che vorresti dare alle prossime generazioni di italiani che stanno venendo in Canada?
Sarebbe un peccato per loro non coinvolgersi e non esprimere sè stessi. É importante ricordare che se vuoi ricevere devi dare. La mia raccomandazione ai giovani è che nessuno farà la vostra fortuna, dovete crearla voi stessi e lavorare sodo!
E alle seconde e terze generazioni che sono nate qui cosa consiglieresti?
Abbiamo sperimentato con nostra nipote, quando l’abbiamo portata alla scuola italiana, è durata un anno e poi non voleva più andare. É importante imparare più di una lingua e imparare a stare con tutti ma soprattutto con le persone più intelligenti di noi, che c’è sempre da imparare.
Lara Ferrarotti (March 2017)